Di certe cose restano solo i ricordi. Come cicatrici.
Parlare con un ragazzo di quindici anni e scoprire che quando usi il termine “naja” non sappia cosa significhi, ti fa rimanere un po’ così… Deluso. Magari senza motivo. Ma tant’è.
A me la naja ha dato, e ha tolto.
La spensieratezza che si ha intorno ai vent’anni, quella sì, se l’è presa.
Non dirò dov’ero, in quale città, ma lui si chiamava Michele, questo posso dirlo. Aveva diciannove anni ed era sperduto, glielo leggevi negli occhi, oltre a molti altri problemi di salute che si portava dietro, più una moglie e un figlio piccolo a Milano. A me mancavano quattro mesi per il congedo e un po’ cercavo di aiutarlo perché si vedeva che stava male, che non ce la faceva più con quel congedo che a lui sarebbe spettato di diritto ma che non arrivava perché da qualche parte un burocrate dell’esercito si era appisolato dietro a una virgola.
Avevo preso i gradi per evitare i servizi, tipo pulire i bagni (termine troppo elegante per descriverli), le camerate, fare le guardie sulle altane e roba così. I corsi per avere i gradi li facevano fare soltanto a chi aveva un minimo di titolo di studio; del mio scaglione eravamo in sessanta: un laureato, due universitari (uno ero io) e cinque o sei diplomati. C’erano una dozzina di ragazzi con solo la quinta elementare. Era il ’92 e a livello di istruzione sembrava il dopoguerra. La naja ti insegnava a capire l’Italia.
Una notte mi toccò comandare la guardia, di ronda eravamo in tre e c’era Michele di turno su un’altana. Mi trovavo dall’altro lato della caserma quando si sparò. Poi ricordo poco, solo una gran corsa e un ufficiale che ci tenne lontani. Accadde poco il giorno dopo, se non che fu messa la sordina al fatto, che l’indagine fu rapida e che l’ufficiale più alto in grado, un sottufficiale e il capo camerata (io) per prassi dovettero aprire l’armadietto di Michele e fare l’inventario. Pochi abiti, molte medicine e qualche foto con moglie e figlio; era uguale a come lo ricordavo: emaciato, pallido e coi capelli rossicci.
Neanche era passato un giorno e sembrava un anno, almeno.
Non trovarono di meglio che mandare una rappresentanza al funerale. Un piccolo autobus con una decina di soldati, un sergente che rimase sul mezzo e io che dovevo “portare” gli altri.
«Cola, ricordati che era depresso, non potevi farci niente» mi disse il colonnello a comando della caserma. «Inoltre gli ufficiali hanno altri impegni e meno siamo meglio è, fidati.» Lì per lì non capii, poi, durante la sepoltura, con i commilitoni schierati e io che li mettevo sull’attenti, cominciarono ad arrivare gli insulti e gli sputi di parenti e amici. Durò parecchio.
In ritardo, ma afferrai il concetto.
Tornato in caserma mi feci un tatuaggio: una cometa presa da un libro che raffigurava incisioni azteche. Avevo bisogno di qualcosa che mi ricordasse il “passaggio” di quell’anno.
Chiesi al colonnello per quale motivo la bandiera della caserma non fosse a mezz’asta e mi rispose, vado a memoria, che era consentito soltanto per le autorità di qualsiasi tipo e non ricordo cos’altro. La settimana dopo, per dire, morì l’ambasciatore turco e la bandiera fu messa a mezz’asta.
In quel momento decisi di scrivere una lettera che spedii a KING, un mensile che adesso non c’è più e che era simile a MAX o GQ. Raccontai tutto e mi servì per sfogarmi; gli diedi anche un titolo: “Sotto la divisa niente”, non un granché, ma passatemela. KING vendeva più di un milione di copie e riceveva qualche centinaio e più di lettere al mese, figurarsi se qualcuno avrebbe potuto interessarsi alla mia. E invece no, qualcuno lo fece e la lettera, a mo’ di articolo con titolo e tutto il resto, campeggiava a piena pagina, anonima come l’avevo spedita.
Non ci ero andato tenero e per circa un paio di settimane in caserma cercarono chi fosse stato, ma senza risultati. Sarebbe bastato guardare i titoli di studio delle schede compilate all’arrivo dei soldati per capire, ma la ben nota perspicacia militare mi fu d’aiuto.
Fui congedato e me ne andai. Certi ricordi poi devono fare i conti con altre cose che arrivano a cambiarti la vita e, come dev’essere, lasciano il posto alle novità. Il ricordo di Michele però è sempre rimasto forte, malgrado tutto, e con esso la mancanza di voglia di raccontarlo, almeno fino a oggi. Per molti anni l’ho considerato soltanto una cosa mia e l’articolo una pagina strappata che non mi apparteneva.
Alla fine, col tempo, è passata, come la spensieratezza che è rimasta in mezzo al piazzale della caserma, nelle camerate e insieme a troppa gente che non capiva.
Ma la cometa, quella, c’è ancora.