Ci sono momenti che rappresentano qualcosa.
Anche oggetti precisi lo fanno.
Ho ripescato la mia vecchia Olivetti Valentine sulla quale, era la metà degli anni ’80, iniziai a battere tasti nella presunzione di scrivere, e ne occorre ancora di più per pensare di poterlo fare con cognizione di causa (lo so oggi, a quel tempo no). La prima storia che scrissi, e per un po’ anche quelle a seguire, era di una banalità sconfortante (senza idee ingenue che pensiamo essere geniali, non si cresce; lo capii dopo, a quel tempo no). E continuai così, un raccontino dietro l’altro, sempre in modo presuntuoso, ma non così tanto da far leggere a qualcuno quel che scrivevo.
Se ci sono momenti che ti segnano, a volte capita che ne seguano altri, che tu lo voglia o no. Così scoprii per caso che esisteva un signore che si chiamava Lino Aldani (uno scrittore vero) e che scriveva storie simili a quelle che piacevano a me. Trovai il suo indirizzo su un elenco del telefono (consultate Wikipedia per capire cosa sia) e con la Olivetti gli scrissi una lettera accorata perché ero felice di non essere solo in Italia (l’ingenuità mantiene giovani). Molto gentilmente rispose, mi regalò due suoi libri e aggiunse che avrebbe letto volentieri qualcosa di mio. Nel 1996, grazie a lui, un mio racconto fu pubblicato per la prima volta in una rivista, una di quelle vere, con tanto di prezzo, codice e tutto il resto.
A quei tempi, mi riferisco sempre agli anni ’80, se volevi scrivere lo facevi e ci sbattevi il muso, non c’erano corsi di scrittura online, coach di scrittura, il fai da te e tutte quelle scorciatoie che esistono oggi. Se ne avevi, ne avevi, altrimenti dopo un po’ ti dedicavi ad altro. Non esisteva il “complotto” dell’editoria contro i talenti inespressi, e il self–publishing era di là da venire. Calci in culo e pedalare, nient’altro. Se avevi qualcosa da dire, gli altri lo capivano solo da ciò che scrivevi, non dalla capacità di promuoverti sui social. Lo so oggi, a quel tempo no, e forse è questo che ha fatto la differenza per quelli della mia generazione. Nessuno aveva un profilo social sul quale poter dire di essere scrittore. Lo eri solo se qualcuno che ne sapeva molto più di te lo confermava. All’epoca funzionava così.
Sono passati ventidue anni da quella pubblicazione, e molti di più da quando per la prima volta appoggiai la Valentine sulla scrivania. Ventidue anni che, tradotti, fanno una decina di libri e quasi cinquanta racconti. Non tanto forse, ma abbastanza, almeno per me. La presunzione l’ho lasciata alle spalle da tempo.
Ventidue anni e poi viene pubblicato il libro che vedete appoggiato sulla Valentine. In quarta i tre autori – Catalano, Pizzo, Vaccaro, esperti del genere fantastico – hanno scritto che all’interno sono presenti le schede di “80 autori imprescindibili”. Nella lista fa tremare le gambe leggere i nomi di Calvino, Salgari, Buzzati… e lo fa anche trovare il mio di nome, che direi essere diversamente imprescindibile.
Ventidue anni, e quel ponte invisibile che va dalla Olivetti a questo libro. Tante ore, tante parole, tanto studio e lavoro. Nessuna giustificazione. Nessuna scorciatoia. L’unico modo che conosco, l’unico che mi hanno insegnato le persone che ho incontrato attraversando quel ponte.
E se ci sono momenti che rappresentano qualcosa, forse anche questo rientra nella categoria.
La Olivetti Valentine da tempo è andata in pensione. La voglia di raccontare storie, mai.